Le cassette migliori erano quelle da 90 minuti perché potevi registrarci sopra due LP. Su una cassetta da 90 minuti un amico mi aveva registrato i Franti: “Luna Nera” sul lato A ed “Il giardino delle 15 pietre” su quello B. Fino al momento in cui ho inserito la cassetta nello stereo e ho schiacciato play non avevo idea di come suonavano i Franti.
Le mie conoscenze dei Franti si basavano su un articolo di Daniela Amenta sul Mucchio Selvaggio, era un articolo lungo che ripercorreva la storia del gruppo dagli inizi fino alla pubblicazione di “Non classificato”, il cofanetto dove erano stati ristampati i loro 4 dischi. Dell’articolo ricordo parole come hard core folk, autogestione, umbertoeco, anarchia, tutte cose che fanno breccia nel cuore di un liceale come un coltello nel burro; ma soprattutto ricordo Franti, il cattivo del libro Cuore, quello che ride quando il maestro parla dei funerali del re. Io naturalmente non ero Franti. Ero stato educato ad essere Enrico Bottini, ogni tanto mi capitava di essere Derossi, ma mai Franti. Avevo ricevuto “Cuore” il giorno della mia prima comunione e l’avevo letto in fretta. Poi c’era stato lo sceneggiato, con Johnny Dorelli che faceva il maestro. Franti aveva i capelli più scuri di tutti. Franti affascinava me come affascinava Bottini: Franti era tutto quello che io e Bottini non potevamo o non dovevamo essere.
I Franti si rivelarono essere molto di più. Il nastro magnetico della cassetta si svolgeva, le casse erano invase dal fruscio, poi era partita “No future”, la prima canzone di Luna Nera. La sensazione che provavo ad ascoltare i Franti, era quella che avrei provato qualche anno dopo guardando Nick Cave and the Bad Seeds ne “Il cielo sopra Berlino” e qualche anno dopo ancora sedendomi nel “Klub der Republik” a P-Berg. E´ quella sensazione che si prova entrando in una fabbrica dismessa: tutto il sogno moderno della tecnica, i macchinari arrugginiti, di cui uno s’immagina il rumore, l’eco delle voci bisbigliate che parlano di uno sciopero imminente, lo scheletro di un capitalismo estinto. In “No future” Lalli canta delle “voci di un’Europa abbandonata” e del “vecchio cine spento da anni”. Torino stava soffocando, come centinaia altre città europee, sotto il peso della modernità: la disoccupazione, la periferia, gli scioperi, il terrore: no future, il nichilismo, era l’unica risposta. No future era quello che circa 6 anni prima i Sex Pistols cantavano alla fine di “anarchy in the uk” ed era diventato lo slogan del punk.
I Franti non facevano punk, i Franti erano un gruppo punk. I Franti suonavano canzoni e lo facevano in modo “artistico”, nel senso che dicevano cose che significavano altre cose, guardavano avanti. Allo stesso tempo però avevano qualcosa di familiare, di accessibile, non erano come un film di Rainer Werner Fassbinder o un romanzo di Thomas Bernhard, che a sedici anni avrei trovato sì “artistici”, ma contemporaneamente incomprensibili.
Nel 1993 le notizie sui gruppi indipendenti si diffondevano per passaparola, attraverso qualche trafiletto sulle riviste di musica alternativa, come il Mucchio Selvaggio o Rockerilla o sulle fanzines scritte a macchina e fotocopiate. Nel 1993, grazie ad uno di questi canali, ero riuscito a sapere che “Non classificato”, il cofanetto dei Franti, era stato ristampato su CD e l’avevo comprato per posta dalla Blubus di Aosta. Il cofanetto contiene due compact disc con “Luna Nera” 1983, “F/C” 1984 (Lato “C” con inediti dei Franti), “Il giardino delle quindici pietre” 1986, “Nel salto dell’ascia sul legno” 1987 ed un libretto enorme con tutti i loro scritti. I Franti non suonavano soltanto, scrivevano anche. I Franti erano multimediali, prima che questo aggettivo venisse distrutto dall’appiattimento del www. Leggendo il libretto scoprivi dove avevano registrato il disco, con quanti soldi, quanto era costato stamparlo e distribuirlo e leggevi i testi delle canzoni. Imparavi come farlo anche tu, da solo, un disco: questo era il punk. I Franti credevano che l’industria della cultura potesse essere sconfitta, nel momento in cui il singolo si appropriava delle tecniche di produzione e distribuzione.
I Franti mi hanno fatto conoscere Cesare Pavese, Samuel Beckett, Umberto Eco, Bruno Bettelheim, Peter Handke, perché erano nel libretto.
I Franti erano meglio di Google. I Franti ritagliavano, montavano la batteria, incollavano, riscrivevano, fotocopiavano, disegnavano, andavano alle manifestazioni, distribuivano, cantavano, facevano la prova dei suoni, suonavano, urlavano, ballavano, caricavano il furgone, disegnavano, sperimentavano con l’eco a nastro ed il flanger, leggevano, accordavano la chitarra, battevano a macchina, rispondevano alle lettere, occupavano, citavano, tutte cose che sembrano così lontane oggi.
Questo è un articolo che avevo scritto per questa rivista. Il direttore l'aveva giudicato troppo legato al mio "io adolescenziale" per pubblicarlo. Avevo appena compiuto 30 anni.
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